Massimiliano Alioto, Agostino Arrivabene, Giorgio Ortona, Bernardo Siciliano
a cura di Luca Beatrice

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Elenco Opere

Agostino Arrivabene
Studio per gestazione della polvere, 2012
grafite e oro in polvere su legno
cm 38 x 32

Agostino Arrivabene
Gestazione della polvere, 2012
olio su lino
cm 71 x 65

Agostino Arrivabene
Rapture (Ganimede), 2012
olio su lino
cm 180 x 230

Agostino Arrivabene
Studio per Rapture (Ganimede)
olio su legno
cm 53 x 41

Agostino Arrivabene
Studio per Rapture (Ganimede), 2010
olio su cartone
cm 37,5 x 51

Agostino Arrivabene
Nuotatore d’abissi I°, 2009
tecnica mista su lino trasportato su  legno
cm 68 x 100

Agostino Arrivabene
Nuotatore d’abissi, 2012
olio su lino
cm 155 x 250

Agostino Arrivabene
Aurea peste, 2012
olio e oro su MDF
cm 32 x 27

Agostino Arrivabene
Pneuma, 2012
olio e oro su tavola
cm 55 x 39

Agostino Arrivabene
Pizia, 2012
olio su legno
cm 71 x 56

Agostino Arrivabene
Crisostomo, 2012
olio e oro su legno
cm 66 x 49,5

Agostino Arrivabene
Cornu Parvulum, 2012
olio su lino
cm 90 x 80

Massimiliano Alioto
Torta, 2012
olio su tela
cm 150 x190

Massimiliano Alioto
Biohazard, 2012
olio su tela
cm 120 x 100

Massimiliano Alioto
Senza titolo, 2012
Bic su Moleskine
cm 17 x 12

Massimiliano Alioto
Propano, 2012
olio su tela
cm 60 x 50

Massimiliano Alioto
Senza titolo, 2012
Bic su Moleskine
cm 12 x 12

Massimiliano Alioto
Prosciutto di Stato, 2012
olio su tela
cm 60 x 50

Massimiliano Alioto
Pecora, 2012
olio su tela
cm 40 x 50

Massimiliano Alioto
Pecora, 2012
olio su tela
cm 40 x 50

Massimiliano Alioto
Pecora, 2012
olio su tela
cm 40 x 50

Massimiliano Alioto
Pecora, 2012
olio su tela
cm 40 x 50

Massimiliano Alioto
Pecore, 2012
olio su tela
cm 150 x 190

Giorgio Ortona
Cantiere Laziale, 2012
olio su tela
cm 60 x 50

Giorgio Ortona
Costruzione, 2011
olio su tela incollata su tavola
cm 35.2 x 30.4

Giorgio Ortona
Cantieri sulla Tiburtina, 2011
olio su tela incollata su tavola
cm 51.4 x 50.2

Giorgio Ortona
Casilino, 2012
olio su tela
cm 40 x 120

Giorgio Ortona
Sacchi, 2012
olio su tela
cm 60 x 120

Giorgio Ortona
Cantieri, 2012
olio su tela
cm 50 x 60

Giorgio Ortona
Finestre Umbertine, 2012
olio su tela
cm 25 x 30

Giorgio Ortona
Palazzina al Casilino, 2012
olio su tela
cm 50 x 60

Giorgio Ortona
Roma Nord, 2012
olio su tela
cm 50 x 100
 
Bernardo Siciliano
Senza titolo, 2012
olio su tela
cm 37 x 56

Bernardo Siciliano
NY, 2012
olio su tela
cm 28 x 42

Bernardo Siciliano
Vinegar Hill, 2012
olio su tela
cm 80 x 120

Bernardo Siciliano
Senza titolo, 2012
olio su tela
cm 40 x 55

Bernardo Siciliano
Senza titolo, 2011
olio su tela
cm 38 x 55

Bernardo Siciliano
Chelsea, 2012
olio su tela
cm 80 x 120

Bernardo Siciliano
NY, 2012
olio su tela
cm 80 x 120

Bernardo Siciliano
NY, 2012
olio su tela
cm 36 x 25

Bernardo Siciliano
NY, 2011
olio su tela
cm 30 x 30

Luca Beatrice

4 Way Street
Massimiliano Alioto, Agostino Arrivabene, Giorgio Ortona, Bernardo Siciliano
a cura di Luca Beatrice

4 Way Street
di Luca Beatrice, curatore della mostra

Nel giugno 1971 la discografia rock si arricchisce di un nuovo capolavoro live. Si tratta della registrazione dei concerti tenuti, nel giugno dell’anno prima, al Filmore East di New York, al Chicago Auditorium e al Forum di Los Angeles, dal quartetto più famoso della West Coast, che insieme aveva già pubblicato il fondamentale “Déjà Vu”.
CSN&Y, questo l’acronimo del supergruppo formato da David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young, corrisponde alla somma di quattro solisti, ciascuno già proiettato verso la propria carriera d’autore, che si uniscono spinti dalla comune passione per la chitarra acustica e per le atmosfere californiane. Pur risultando un insieme dal suono compatto e affiatato, i protagonisti sono già su quattro strade diverse. Tra i brani indimenticabili del doppio album, “Teach Your Children” scritto da Nash, la discussa “Triad” di David Crosby che parla di un triangolo amoroso, “Cowgirl in The Sand”, “Ohio” e “Southern Man”, autore Neil Young, il più celebre e acclamato anche fuori dalla superband.
Non è la prima volta e non sarà certo l’ultima nella storia della musica che quattro assi si mettono insieme temporaneamente per mandare un messaggio che sia quasi un manifesto di una determinata sensibilità, di un sentire comune, di una vicinanza di intenti. Tutti caratteri che identificano un mestiere, una categoria, ma che non bastano a formare un gruppo compatto. Il destino è che ognuno vada da sé, ciascuno per la propria strada, appunto, per quattro strade diverse.
Cose di questo genere accadono anche nell’arte. Anzi, un tempo succedeva più spesso perché l’idea che “l’unione fa la forza” prendeva vigore da esperienze vincenti come l’Arte Povera e la Transavanguardia, brand ancor più che etichette, buone sia per i manuali di storia che per l’esportazione a scopo affari. Successo di critica e di mercato. Sulla scorta di tali esperienze, ottime nel lanciare il Made in Italy oltre confine, si è sentita per molto tempo, almeno fino a quando si è ragionato in termini di arte locale, poi la globalizzazione ha imposto un altro sistema ben più ampio e articolato, l’esigenza di “fare gruppo”, perché insieme è meglio che da soli (sembra uno slogan pubblicitario, d’accordo). Ripercorrendo brevemente i principali ensemble pittorici del tardo novecento italiano – la Nuova Scuola di San Lorenzo e gli Anacronisti, il Nuovo Futurismo e la Pittura Mediale, l’Officina Milanese e la Scuola Palermitana, ma andando più indietro i Sei di Torino, gli Otto di Lionello Venturi, e poi Forma, il Fronte Nuovo delle Arti ecc…  – ci accorgiamo di come la teoria dell’insieme non abbia portato fortuna a tutti in egual misura. Anzi, i più bravi si affrettano a prendere le distanze dalle seconde file, perché l’arte non è il paese della solidarietà o della fratellanza, ma quello della concorrenza spietata e dell’individualismo esasperato. In molti preferiscono l’idea del front-man, del solista, piuttosto che identificarsi in un nome comune: Peter Gabriel più famoso dei Genesis, Morrissey liquida gli Smiths, i fratelli Gallagher litigano e sciolgono gli Oasis, Damon Albarn, immerso in manciate di progetti paralleli, liquida i Blur.
Ogni volta che capita l’occasione di una mostra che mette insieme o paragona un piccolo nucleo di artisti, il critico giustamente deve chiedersi: perché questi e non altri? Si tratta di una tendenza, di uno stile oppure di mera opportunità? Chi sceglie cosa? Chi si arroga il diritto di dire, eh no, tu nel gruppo non ci stai e tu invece entra pure?
Negli anni Ottanta e Novanta queste operazioni andavano molto di moda, e chi restava escluso ci rimaneva male. Quante volte ho sentito dire: “non fosse morto improvvisamente Luigi Carluccio, alla Biennale nel 1980 ci sarei stato anche io”; oppure “dall’Arte Povera mi hanno eliminato perché il mio lavoro era diverso dagli altri”. Ci si può credere oppure no, ma insomma sono questioni che sembrano appartenere a un mondo molto lontano e distante dall’attualità. Perciò è necessario intendere questa mostra, che prende il titolo dalla suggestione del mitico doppio live di CSN&Y, non come una collettiva ma come la somma di quattro personali. Una sola cosa accomuna i nostri artisti: l’amore assoluto e incondizionato per la pittura. Il resto, sono davvero quattro strade diverse…

Lato A. Massimiliano Alioto. De rerum naturae

Alioto ha dedicato buona parte della sua recente poetica al tema della natura, nell’accezione del termine che ricorda il pensiero di Francesco Arcangeli che nel 1958 così scriveva: “Natura è sentirsi coinvolti, partecipanti di un’enorme vicenda che include passione e sensi. Natura non nel senso ottocentesco, ma precategoriale, prefasica, natura è una cosa immensa che non vi dà tregua, perchéla sentite vivere tramando fuori, entro di voi: strato profondo di passione e di sensi, felicità e tormento. La natura è partecipata intimamente: la sua proporzione sfugge, ora, alla misura intellettuale”.
Dopo aver esplorato il difficile tema del paesaggio all’interno dei cosiddetti ideal-tipi che reggono l’affermazione del genere – montagna, mare, pianura – oggi evidenzia la contraddizione evidente tra il creato e il costruito, quest’ultimo rappresentato dall’architettura, elemento simbolico per eccellenza dell’insediamento umano che non sempre parla il linguaggio dell’armonia e del rispetto. Alioto è grottesco, pittore autore di grottesche, genere disprezzato nell’antichità, ad esempio dal Vasari che le riteneva “pitture licenziose e ridicole molto”.  Si esprime per allegorie e paradossi immersi in scenari apocalittici. Il dipinto più interessante e geniale di quest’ultima fase è “Pecore”, un immenso gregge ovino in fuga dallo stadio di San Siro, immerso nel fumo. Piacerà, soprattutto, a chi crede che il calcio sia il nuovo oppio dei popoli, colpa del discredito quotidiano che mette in crisi i valori autentici dello sport. Non sono tra costoro, ma il quadro è comunque davvero bello.

Lato B. Agostino Arrivabene. Metallo urlante 

Guardare la pittura di Arrivabene e leggerne la critica è un po’ come trovarsi di fonte a un ossimoro. Se ci fidiamo delle parole e diamo retta ai continui rimandi classicisti, al ricorso al mito, all’insistito anacronismo terminologico e di riferimenti visuali, daremmo ragione a chi dubita del possibile inserimento di tale lavoro nell’ambio della cosiddetta pittura contemporanea. Se lo leggessimo unicamente in chiave citazionista o iperletteraria, dovremmo rispondere all’obiezione di chi sostiene che questa tendenza si è ampiamente consumata negli anni Ottanta, seppur ammantata di concettualismo indispensabile per ottenere diritto di cittadinanza nell’attuale.
La verità è che Arrivabene guarda ad altri mondi e verso altre direzioni. Il fumetto di Moebius, il teatro de La Fura del Baus, la Body Art più estrema, il fetish, il metallo più profondo intriso di sonorità oscure e pesanti. Lo immagino oggetto di culto per un pubblico di appassionati che ascolta musica ai limiti della tolleranza fisica, espressione di un eroismo tardo romantico, mutazione genetica del quadro classico immerso in un universo di segni di riferimento “bassi” e al contempo esaltati da una straordinaria perizia artigianale, manuale e calligrafica.

Lato C. Giorgio Ortona. Caro diario

Non amo particolarmente Nanni Moretti, forse perché non apprezzo chi lo ha eletto guru di un pensiero farraginoso e snob, ma devo ammettere che la sequenza del primo episodio di “Caro diario” (1993) dove l’attore-regista gira in Vespa per Roma è una delle più belle del cinema italiano degli ultimi vent’anni (i maligni dicono trattarsi dell’unica sequenza in movimento che lui abbia mai girato). E’ estate, la capitale semideserta e depurata dal traffico, lascia finalmente spazio ai pensieri e alle riflessioni. Si può girare a naso in su (è capitato più tardi anche a Gabriele Salvatores ispirato da Marco Petrus, il film è “Happy Family”), guardando i palazzi i cui dettagli normalmente ci sfuggono e ci appaiono allora di struggente bellezza, una bellezza normale, fatta di equilibrio e forma, la Roma umbertina dalla Garbatella a Prati, per poi spingersi verso Spinaceto e Ostia, scivolando così inevitabilmente nella Roma pasoliniana, negli anni Sessanta e nel rimpianto per la perdita della nostra innocenza.
Giorgio Ortona ha una maniera molto delicata di rapportarsi con l’architettura della sua città d’adozione – è un apolide vero, nato in Libia come Mario Schifano il mito, e di radici ebraiche. Le sue visioni sono quanto di più lontano dalla pittura dei nonluoghi, il suo sguardo è intriso di localismo orgoglioso, è la Roma rosa di Mafai citata da Valerio Magrelli “davanti alle sue tele, c’è da credergli, persuasi da un’alchimia cromatica che giunge dolcemente a trasfigurare il reale…”, memoria di un dar colore raffinatissimo oltre il tempo massimo di cui, proprio per questo ci sarà sempre bisogno.

Lato D. Bernardo Siciliano. On the Bridge

Da tempo artista di profilo internazionale, tra i pochi pittori a saper muoversi con agio sui grandi formati, Bernardo Siciliano racconta visioni metropolitane newyorkesi con la classe e la delicatezza del tocco mediterraneo. Dal 1996 risiede a New York e da allora la sua pittura è consacrata principalmente ai temi della città e del corpo. Il dentro e il fuori, gli interni e gli esterni, di una realtà – quella americana – da cui è profondamente attratto e che racconta attraverso uno stile intenso e appassionato. Sobborghi silenziosi, strade vuote, palazzi illuminati da luci radenti, vengono definiti attraverso una pennellata vibrante che parla dell’America più vera e solitaria, quella lontana dai luoghi famosi e dai depliant turistici. Siciliano passa poi a dipingere nudi femminili e maschili che mostrano se stessi attraverso la fissità scultorea dei loro corpi; una narrazione che trae chiaro spunto dalla fotografia di Helmut Newton – nei giochi di luci e ombre e nei contrasti tra figure umane e spazio circostante – e che è avvolta da un’atmosfera sensibilmente sensuale.

Angelo Crespi

Il lusso della pittura

Immersi nel concettuale per forzatura ideologica, stentiamo a credere la pittura ancora viva. Ci doliamo con fare reazionario di questa perdita, spesso di nascosto per non incorrere nell’insulto di “passatista”, ma giusto con vergogna prendiamo le difese di chi ancora per vezzo o necessità esistenziale la frequenta. Quasi non credessimo più nella forza dell’arte della tradizione, ci compiaciamo delle istallazioni senza senso, della body art più insulsa, cinguettiamo felici alle performance modaiole. Poi nell’intimo delle nostre case, della nostra anima, collezioniamo quadri che ci forniscano l’ultimo sussulto consolatorio di una perduta bellezza, visto che già la vita fa schifo e dunque perché abbandonarsi ad un arte che esasperi questa prospettiva.
Data la premessa, riteniamo sufficiente a giustificare una mostra di arte contemporanea la qualità delle opere esposte, il piacere che esse ci regalano al puro sguardo. Non sono necessarie verbose sovrastrutture, per concederci il lusso di ammirare bei dipinti. D’altronde questi artisti sono contemporanei in quanto vivi, e solo una snobistica avanguardia di regime relega la figurazione ai margini, indicandola come sorpassata.
Per cui non ci scandalizza neppure la franchezza del curatore, lungi dall’imbonirci inutili liasion, quando ci spiega che i quattro sono solisti che non hanno alcuna vicinanza se non l’essersi trovati insieme per piacere del critico, il vero dominus dell’artsystem, il quale decide per enumerazione o sottrazione le sorti delle correnti e dei cenacoli.
Certo, i quattro sono uniti dalla bravura tecnica, il che nel contemporaneo non è sempre una virtù, spesso preferendo il fatto male e l’insensato al ragionato e ben fatto. In ogni caso, loro sono campioni degli “a solo”, non cercano improbabili comunanze o conventicole, e la pur succinta antologia evidenzia quanto ancora può darci la pittura e la figurazione quando l’artista si misura innanzitutto col senso delle cose, usando gli strumenti estetici che gli sono propri: l’algida rappresentazione del paesaggio di Siciliano confrontata al lirismo del non finito di Ortona, il grottesco di Alioto paragonato al citazionismo mitologico di Arrivabene.
Quattro modi diversi di rispondere all’eterna domanda “perché non la tela bianca?”, quattro modi di contrapporre la forma al kaos, di resistere all’entropia cui siamo destinati.

Angelo Crespi
Presidente
Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te

Nicola Sodano

Il filone dell’arte moderna e contemporanea, ampiamente esplorato dal Centro d’Arte di Palazzo Te, con la mostra “4 Way Street” si arricchisce di una proposta bella e di pregio. La politica culturale della nostra città fa leva – con la ovvia e dovuta premessa della cura, protezione e recupero del patrimonio  storico-artistico – anche su omaggi alla contemporaneità non banali e non necessariamente posseduti dal rovello del turbamento a tutti i costi.
Grazie alla scelta del curatore,  possiamo fregiarci di una mostra di quattro artisti italiani diversi e pur simili nell’accezione di un valore riconosciuto. Ciascuno di essi viene colto, con analisi profonda, nella pienezza delle sue più significative espressioni pittoriche. La pittura sarà protagonista di un evento importante, in linea con una programmazione culturale che sa osservare, interpretare e proporre nella consapevolezza della molteplicità di orizzonti che ci circondano.

Nicola Sodano
Sindaco di Mantova

Luca Beatrice – Bio

Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino.

Critico d?arte, docente all’Accademia Albertina di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia.
Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori, 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero, dal titolo Zero, (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E? autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell?arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli 2011) e pubblicato Gli uomini della Signora (Dalai 2011), un omaggio alla “sua” Juventus.
Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sul settimanale Torino Sette de La Stampa, sulle riviste Arte e Rumore. Curatore dell?XI, XII e XIII edizione del Premio Cairo, è Presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Nel marzo 2012 è uscito il suo nuovo libro Pop. L’invenzione dell’artista come star, edito da Rizzoli.

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DATE

17.6 – 9.9 2012
Mantova
Fruttiere di Palazzo Te

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