Le Metamorfosi di Ovidio irrompono nell’architettura di Palazzo Te fin dalla prima stanza dell’appartamento “privato”, detta Camera di Ovidio su ispirazione dell’antiquario Jacopo Strada.

Il poema, che narra oltre duecentocinquanta miti, conosce una grande fortuna a partire dalla fine del Quattrocento, quando la traduzione dei poeti classici in lingua volgare comincia a imporsi come un fenomeno di vasta portata nel mercato editoriale italiano. Omero, Virgilio, Stazio e soprattutto Ovidio vengono liberamente riscritti e adattati per il diletto di un pubblico più vasto. Le edizioni a stampa delle Metamorfosi si moltiplicano in Italia dal 1471. Il volgarizzamento di Giovanni Bonsignori da Città di Castello è corredato da una serie di scene figurate per l’edizione veneziana del 1497. Questa ricca iconografia resta alla base di altre edizioni, come quella di Niccolò degli Agostini (1522) corredata da 72 xilografie. Nel Cinquecento il poema è riletto nel metro dell’Orlando furioso di Ariosto.

Il volume di Agostini, il cui nome compare nel patrimonio librario della corte Gonzaga, può essere considerato il testo mediatore alla base delle rielaborazioni iconografiche di Giulio Romano insieme all’antecedente di Bonsignori. Per questo alcune figure degli affreschi si spiegano soltanto nel racconto di Agostini, spesso più sviluppato di quello ovidiano.
La prima camera del palazzo, che intreccia storie di sfida e di amore tra umani e dèi, introduce all’idea che l’edificio si snodi come un labirinto di miti e racconti antichi, immagini di eroi e di amori, in un crescendo in cui meraviglia, armonia, poesia e magia si sovrappongono. È il labirinto che ispira l’uomo “nobile”, ovvero colui che, educato dall’antico, è capace di azioni che rendono la vita degna di essere vissuta.

  1. Orfeo agli Inferi: amore e morte

Orfeo è il poeta capace di andare nel mondo dei morti e tornare alla vita. È lo sciamano dell’arte greca che incanta gli animali con la sua musica. Euridice è l’amore della sua vita e la sua sposa. Come ci racconta Virgilio nelle Georgiche, Euridice è costretta a fuggire per sottrarsi al furore amoroso del pastore Ariste e, nella corsa, viene morsa fatalmente da un serpente. Orfeo, afflitto per la morte dell’amata, canta e gli dèi dell’Ade, che mossi a compassione, concedono a Euridice di tornare sulla terra, a condizione però che Orfeo non si volti mai a guardarla per tutto il pericoloso tragitto dal mondo dei morti. Proprio alla fine del viaggio, inquietato da un rumore, Orfeo si volta e perde la sua sposa per sempre.
L’affresco mostra Orfeo che suona e canta per Plutone e Proserpina sotto la minaccia del cane Cerbero, mentre Caronte accompagna Euridice, con i polsi legati, al loro cospetto. Cerbero non compare nella versione ovidiana ma in quella di Niccolò degli Agostini (Venezia, 1522), mentre Caronte è citato solo dopo la morte di Euridice.

“O dei del mondo che sta sottoterra, dove tutti veniamo a ricadere, noi mortali creature, senza distinzione, se posso parlare se mi permettete di dire la verità, senza i rigiri di chi dice falso, io non sono disceso qui per visitare il Tartaro buio, né per incatenare i tre colli ammantati di serpenti del mostro della stirpe di Medusa. La ragione del mio viaggio è mia moglie, nel cui corpo una vipera calpestata ha iniettato veleno troncandone la giovane esistenza. Avrei voluto poter sopportare, e non posso dire di non aver tentato. Ma Amore ha vinto!”
(Ovidio, Metamorfosi, X, vv. 17-25) 

  1. Il supplizio di Marsia: osare l’inosabile

Il satiro Marsia trova sulla sua via un prezioso strumento musicale a doppia canna: si tratta dell’aulos, gettato via da Atena e contaminato dalla maledizione della dea. Inorgoglito dallo splendido suono dello strumento, Marsia osa sfidare il dio Apollo in una gara musicale. Inesorabilmente sconfitto, il satiro subisce una tremenda punizione e viene scorticato vivo.
Nell’affresco giuliesco, legato a un albero dove è appesa una siringa, Marsia è scorticato da Apollo, rappresentato a sinistra con due figure, una delle quali porta la sua lira. A destra c’è Mida in lacrime con Olimpo, allievo del satiro, che porta un secchio. La scena è una contaminazione con la Contesa di Apollo e Pan, sia per lo scambio degli strumenti musicali che per la presenza di Mida.
L’azione diretta di Apollo è assente nell’originale ovidiano ed è introdotta nella versione delle Metamorfosi in volgare di Giovanni Bonsignori (Venezia, 1497). La compresenza di Apollo come carnefice e Marsia appeso all’albero è presente nel volgarizzamento cinquecentesco di Niccolò degli Agostini.

“Un altro si sovvenne del Satiro che suonando il flauto (il flauto inventato dalla dea del Tritone) fu vinto in una gara dal figlio di Latona e punito. «Perché mi sfili dalla mia persona? -gridava il Satiro. – Ahi, mi pento! Ahi, il flauto non valeva tanto!» Urlava, e la pelle gli veniva strappata da tutto il corpo, e non era che un’unica piaga: il sangue stilla dappertutto, i muscoli restano allo scoperto, le vene pulsanti brillano senza più un filo d’epidermide; gli potresti contare i visceri che palpitano e le fibre translucide sul petto.”
(Ovidio, Metamorfosi, VI, vv. 385-391) 

  1. Bacco e Arianna: amarsi tra le stelle

Figlia del re di Creta Minosse e di Pasifae, Arianna si innamora di Teseo dopo averlo aiutato a uscire dal labirinto sconfiggendo il Minotauro, il mostro metamorfico metà toro e metà uomo. Nonostante lei gli abbia salvato la vita, Teseo la abbandona sulla spiaggia di Nasso per proseguire nelle sue imprese. Il pianto della giovane attrae il dio Bacco che la consola e, affascinato dalla sua bellezza, la prende in moglie. Per offrirle fama immortale le sfila il diadema e lo scaglia in cielo: mutate in fulgidi fuochi, le gemme della corona si fissano nel firmamento creando la Corona Boreale dell’emisfero nord.
La scena dell’affresco giuliesco esalta l’erotismo dei due amanti sdraiati al centro accanto ad Eros, al quale la giovane fanciulla accarezza i capelli. Sulla destra compare un satiro con una fiaccola accesa e, in primo piano, una figura femminile personifica una fonte e rappresenta la fertilità.

“E lei rimasta sola si lamentò disperatamente, finchè Bacco venne a portarle abbracci e aiuto, e, per immortalarla con una costellazione, le tolse dalla fronte il diadema e lo scagliò nel cielo. Vola quello leggero nell’aria e mentre vola, le gemme si mutano in fulgidi fuochi, che mantenendo forma di una corona, vanno a fermarsi a mezza via tra l’Inginocchiato e Colui che tiene il serpente.”
(Ovidio, Metamorfosi, VIII, vv. 176-182) 

  1. La contesa di Apollo e Pan: la musica e la sfida con gli dèi

Pan sfida Apollo in una gara musicale. Il monte Tmolo è il giudice della contesa. Re Mida, che ha abbandonato le sue ricchezze e vive nei boschi con Pan, assiste al confronto. Quando il monte Tmolo assegna ad Apollo la vittoria, re Mida critica la scelta e per questo il dio gli fa spuntare sul capo due orecchie d’asino.
L’affresco di Giulio Romano illustra il momento della contesa e mette in evidenza gli strumenti musicali dei due protagonisti: la musica divina di Apollo, che suona la lira, e quella umana di Pan, che suona il flauto. La figura anziana sullo sfondo con mantello e bastone rappresenta il genio del monte Tmolo.
La scena è una contaminazione fra il mito di Marsia, già presente nella sala, e quello di Pan. La Vittoria alata a sinistra, che incorona Apollo, e Minerva a destra non sono presenti nel racconto ovidiano, ma tradizionalmente si legano alla gara musicale. La raffigurazione di Tmolo, al centro, con sembianze di vecchio, con la mano destra alzata in direzione di Pan, sembra dipendere direttamente dal rifacimento ovidiano di Niccolò degli Agostini, come pure la presenza di Minerva.

“Qui Pan, un giorno che modulava sulla zampogna di canne cerate un leggero motivo e si vantava con le tenere ninfe della sua bravura, osò disprezzare i canti di Apollo in confronto ai propri, e venne a misurarsi – giudice lo Tmolo – in un’impari gara. (…). E Pan si mise a soffiare nell’agreste zampogna, incantando Mida, che per caso era lì, col suo barbarico canto. Quando Pan ebbe finito, il sacro Tmolo girò il suo volto verso il volto di Febo (…) Febo, col capo biondo incoronato di alloro del Parnaso, spazzava il suolo col suo mantello impregnato di porpora di Tiro, e con la sinistra reggeva la cetra tutta intarsiata di gemme e avorio indiano; nell’altra mano teneva il plettro. Anche la posa era da artista. E ora col pollice esperto sollecitò le corde con tal bravura, che lo Tmolo, affascinato da tanta dolcezza, dichiarò che Pan con la sua zampogna era battuto.”
(Ovidio, Metamorfosi, XI, vv. 152-171)