La Sala dei Cavalli è collocata nel corpo di fabbrica delle antiche scuderie dei Gonzaga, dove gli avi di Federico II allevavano i loro preziosissimi cavalli da corsa. L’arte di Giulio Romano trasforma le stalle in una reggia e questo ambiente in una sala di ricevimento per gli ospiti illustri. Nel trionfo degli affreschi con ironia e maestria sono presentati i cavalli in posa. Due di loro hanno un nome e si rivolgono con lo sguardo al pubblico: Morel Favorito, il cavallo dal manto grigio della parete sud; Dario il destriero con il manto più chiaro della parete nord. Al di sopra dei destrieri prediletti da Federico II Gonzaga, sono dipinti sei monocromi che imitano bassorilievi di bronzo e raffigurano alcune Storie di Ercole. Oltre agli episodi di Ercole e Anteo ed Ercole e Deianira, sono illustrate quattro delle dodici celebri Fatiche: Il leone di Nemea e Il cane Cerbero, L’idra di Lerna e Il toro di Creta, che potrebbero essere lette anche come le due metamorfosi del dio fluviale Acheloo durante la lotta con l’eroe.

Originariamente la sala era arredata con corami aurei e rossi, mentre il pavimento, prima dei restauri settecenteschi e novecenteschi, era in cotto.

Ercole: la divinizzazione dell’eroe

Ercole diventa immortale grazie a Giove dopo le celebri dodici fatiche grazie alle quali riesce a espiare la colpa per aver ucciso la propria famiglia.
La follia ha indotto Ercole a uccidere moglie e figli. Disperato l’eroe si ritira in solitudine. Rintracciato dal cugino Teseo, accetta di recarsi a Delfi dove la Pizia gli dice di raggiungere Tirinto e servire Euristeo compiendo una serie di imprese. Comincia così il suo percorso di espiazione e iniziazione.

  1. Nesso e Deianira

Nesso, figlio di Issione e Nefele, è un centauro che vive sulle rive del fiume Eveno e usa traghettare i viaggiatori da una sponda all’altra. Quando incontra Ercole e la moglie Deianira, il centauro si offre di traghettare la fanciulla e, invaghitosi di lei, cerca di rapirla. Per salvare la sua sposa, Ercole lo uccide con una freccia intrisa del veleno dell’Idra, sconfitta dall’eroe in una delle sue Fatiche. Prima di morire, per vendetta, Nesso dona a Deianira il suo sangue avvelenato, suggerendole con l’inganno di cospargerlo su una tunica del marito per ottenere amore eterno. Ingelosita da una rivale, Deianira seguirà il consiglio del centauro, fatale per l’eroe.
L’affresco di Giulio Romano presenta Deianira sulla groppa di Nesso, mentre Ercole è posto a destra e impugna l’arco e la freccia.

“E già [Ercole] è arrivato sull’altra sponda e sta raccogliendo l’arco precedentemente scagliato, quando sente delle invocazioni – è la moglie, la riconosce -, vede Nesso che se la svigna portandosi via colei che gli è stata affidata, e grida: “Dove t’illudi di poter scappare con quelle tue zampe, o bruto? A te dico, Nesso biforme! Dammi retta, non soffiarmi cose che son mie! Se non ti frena un minimo di riguardo per me, da un accoppiamento illecito dovrebbe almeno distoglierti l’eterno girare di tuo padre. Comunque, confida pure nelle tue risorse equine, ma non sfuggirai, con un tiro ti raggiungerò!”. E conferma con i fatti le ultime parole: tira una freccia, e trafigge la schiena del fuggiasco. Il ferro a uncino rispunta dal petto, e come viene estratto, il sangue sprizza via da entrambi i fori, misto al veleno infetto del mostro di Lerna. Nesso raccoglie questo sangue brontolando tra sé: “Non morrò senza vendicarmi!” e a colei che voleva rapire dona la propria veste intrisa del liquido ancora caldo dicendole che è uno stimolante per l’amore.”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 118-133) 

  1. Ercole e Anteo

Anteo re della Libia, è un gigante alto sessanta braccia figlio di Poseidone e Gea. Abita in una spelonca nella valle del fiume Bagrada presso Zama, si nutre di carne di leone ed è invincibile finché rimane a contatto con la terra, ovvero sua madre Gea. Ercole riesce a sconfiggerlo sollevandolo in aria, come si vede nell’affresco giuliesco.

“E così sono stato io a domare Busìride che lordava di sangue di forestieri i templi? A togliere al malvagio Antèo le forze che gli ridava sua madre? A non lasciarmi spaventare né dalla triplice forma del mandriano d’Iberia, né dalla tua triplice forma, o Cerbero? Siete state voi, mani mie, a far chinare le corna al toro possente?”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 182-184) 

  1. Ercole e l’Idra di Lerna

Idra, figlia di Tifone ed Echidna, sorella di Cerbero, Ortro e Chimera, è un mostro velenoso. Descritta come un serpente marino dotato di molte teste, che ricrescono dopo essere state mozzate. L’Idra viene dominata da Ercole, unico tra tutti gli umani, nella sua seconda Fatica.
L’interpretazione tradizionale dell’affresco di Giulio Romano identifica il serpente con l’Idra nel momento del combattimento con Ercole. Altre letture vedono invece nell’animale il serpente Ladone del Giardino delle Esperidi (affrontato da Ercole nell’omonima Fatica). Ma potrebbe essere anche la raffigurazione del dio fluviale Acheloo che, in apertura del Libro IX delle Metamorfosi, narra di essersi trasformato prima in serpente e poi in toro durante la lotta con Ercole che lo sta sovrastando per conquistare Deianira.

“Battuto in fatto di potenza, ricorro alle mie arti e gli sguscio via trasformandomi in lungo serpente. (…) Flettere il corpo in spire sinuose e vibrare con terribile sfrigolio la bifida lingua.”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 57-65) 

«Anche se tu, Acheloo, superassi qualsiasi drago, che cosa potresti mai essere, da solo, in confronto al mostro di Lerna? (…) Questo mostro che ad ogni taglio si ramificava in nuove serpi e più era colpito più cresceva, io lo domai e, domatolo, lo bruciai.»”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 67-74) 

“(La conquista) dei pomi custoditi dal drago insonne.”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, v. 190)

  1. Ercole e il leone di Nemea

Il leone Nemeo prende il nome dalla città greca di Nemea. È proverbiale la sua pelle impenetrabile alle armi in ferro, bronzo o pietra. Per sconfiggere il leone è quindi necessaria la forza delle mani dell’uomo. Secondo Esiodo il leone è figlio di Ortro e Chimera, fratello della Sfinge; secondo Apollodoro è stato generato invece da Tifone; mentre per Igino è figlio di Selene. Nella prima Fatica, dopo aver provato a ucciderlo con arco e frecce, Ercole utilizza la sua clava per portare il leone dentro una grotta. Qui l’animale è intrappolato e viene soffocato dall’eroe con l’uso delle mani, come rappresenta l’affresco di Giulio Romano. Dopo la sua morte, il leone viene privato del manto, utilizzato da Ercole come pelliccia. Giove lo collocherà tra i segni dello Zodiaco.

“Da queste braccia soffocata giace la belva immensa di Nemea, su questa nuca ho sostenuto il cielo. La spietata consorte di Giove si è stancata a darmi ordini: io non mi sono stancato a eseguirli!”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 197-200) 

  1. Ercole e il toro

La settima Fatica che Euristeo impone a Ercole è catturare il Toro di Creta, una creatura selvaggia inviata da Poseidone, dio del mare, per seminare il terrore sull’isola del re Minosse. Dopo una lotta epica, l’eroe riesce a dominare la bestia e a portarla a Micene come trofeo.
Questa è la lettura tradizionale dell’affresco in cui Ercole afferra il toro per le corna puntando un ginocchio sulla schiena della bestia. Proprio questo particolare potrebbe suggerire una diversa interpretazione che identifica nell’animale il dio fluviale Acheloo nella metamorfosi in toro durante il combattimento con Ercole. Questa singolare posizione dell’eroe viene infatti descritta con precisione nel testo di Agostini e raffigurata nella xilografia che illustra alcuni momenti delle Storie di Ercole con la moglie Deianira. Giulio Romano avrebbe così raffigurato entrambe le trasformazioni di Acheloo.

“Siete state voi, mani mie, a far chinare le corna al toro possente?”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 185-186) 

“Sconfitto anche questa volta non mi restava che la terza forma, quella di un truce toro. Trasformatomi in toro, riprendo la lotta.”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 80-81) 

  1. Ercole e il cane Cerbero

Euristeo comanda a Ercole, come dodicesima e ultima Fatica, di catturare Cerbero e portarlo alla luce del giorno. Per compiere questa impresa, l’eroe deve scendere negli Inferi affrontando molte sfide lungo il cammino. Raggiunto Cerbero, dopo una lotta feroce, riesce a catturare il mostro a tre teste.

“E così sono stato io (…) a non lasciarmi spaventare dalla tua triplice forma, o Cerbero?”
(Ovidio, Metamorfosi, IX, vv. 182-185)